The Legend of Tarzan

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La campagna di Re Leopoldo II in Congo, dal 1865 al 1909, è storia e chiunque la può leggere sui libri per scoprire le brutture del colonialismo. Colonialismo che funge da punto di partenza per la nuova storia della creazione letteraria di Edgar Rice Burroughs, lo scrittore statunitense che nel 1912 portò alla luce Tarzan, il Signore delle scimmie. L’invenzione di Burroughs è stata trasposta più di quaranta volte sul piccolo e grande schermo, e The Legend of Tarzan è l’ultimo film, in ordine cronologico, a proporre le gesta eroiche di Lord Greystoke. Ma in un’epoca in cui gli eroi cinematografici sembrano non servire più, abbiamo davvero ancora bisogno di Tarzan?

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David Yates prende fra le mani un altro simbolo della letteratura e dopo Harry Potter si presta a svecchiare il Signore delle scimmie, cercando il modo per presentarlo degnamente a generazioni che nulla sanno di Elmo Lincoln, Johnny Weissmuller o Christopher Lambert. L’operazione modernità del regista inglese è però vittima di un buonismo che tarpa le ali a una storia potenzialmente interessante, arenandosi sullo scoglio di un politically correct castrante. Yates e i suoi sceneggiatori sembrano spaventati dall’osare qualcosa di più e preferiscono accontentare tutti, senza però soddisfare a pieno nessuno. Scostandosi dall’opera letteraria, infatti, operano una rivisitazione che vede già John Clayton III, alias Tarzan, in Inghilterra, tenacemente aggrappato al desiderio di rifarsi una vita che sembra però non appartenergli totalmente. Il suo primitivo passato è tenuto sigillato da sensi di colpa e svelato in flashback noiosi, lenti e non sempre efficaci, rivelando l’incapacità della sceneggiatura nel ricostruire le fondamenta eroiche del suo Mito. Il Greystoke del granitico e poco espressivo Alexander Skarsgård è un uomo depresso, tormentato, mogio, con sulle spalle un’eredità nobiliare che si sforza di onorare, andando contro anche a sé stesso. In fondo al cuore continua difatti ad agognare un ritorno in Africa, culla della sua gioventù e luogo dove ancora risiedono gli amici di un tempo, umani e animali. Da questo punto di vista tutto risulta abbastanza logico, ma ci si è persi nel contorno, nei dettagli, nella capacità di legare la storia in modo appropriato. E allora largo a dinieghi, ripensamenti, a un “vogliamoci bene” innaturale tanto quanto la fauna locale, un poco maltrattata da una CGI non all’altezza. Mettiamoci anche la regia di Yates, come suo solito senza infamia né lode, ma che qui non riesce a tenere ferma la macchina da presa quando serve, e solo lui sa perché.

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I difetti potrebbero affossare The Legend of Tarzan, ma non sarebbe giusto bocciare del tutto un film che scorre lineare, senza scene clamorose e con qualche attimo di noia, certo, ma capace di filare liscio per quasi due ore senza pesare. Quello che resta è un’avventura scacciapensieri, a tratti divertente, sicuramente spensierata e capace di sfruttare attori come Christoph Waltz e Samuel L. Jackson a dovere. Il nuovo Tarzan libera il suo urlo primitivo dopo un inizio timido e quasi in sordina, e il riecheggiare di quel grido iconico resuscita i ricordi di quando il cinema era grande quanto i suoi eroi. Eroi senza superpoteri, forse per questo più vicini a noi e allo stesso tempo leggendari. Avremmo indubbiamente desiderato di più e di più si poteva fare, ma alla fine The Legend of Tarzan si rivela un piccolo, piacevole intrattenimento. Perché il mondo ha sempre bisogno di eroi.

di Manuel Leale

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